Un italiano al museo (don’t touch)

La grandiosità dell’italiano medio è esemplificata da un dono speciale che possiede lui solo: un modo tutto suo di recepire i messaggi a seconda di ciò che gli fa comodo. Il fenomeno è in fase di studio da anni ma non è stato ancora chiarito come avvenga il processo di decodifica.

Nel corso del lockdown, ad esempio, recenti studi dimostrano come il fenomeno si sia acuito notevolmente e – complice una normativa non sempre chiara e dettagliata – l’italiano medio ed il suo dono si sono sbizzarriti. E’ così che messaggi come “puoi uscire solo in caso di necessità“, si sono trasformati in “puoi bivaccare sui Navigli“, o ancora “puoi incontrare solo i tuoi congiunti” sia diventato “fai pure una rimpatriata con gli amici delle elementari.

La cosa mi ha portato a riflettere sul fatto che all’estero hanno ben presente l’evento, lo testimonia – ad esempio – il fatto che negli ultimi anni una quantità impressionante di musei/palazzi in tutte le parti d’Europa non disponessero di un’audio guida in italiano, ma in compenso producevano una quantità abnorme di messaggi “don’t touch” con relativa traduzione “non toccare” in italiano.

E non è un caso. Il problema? L’italiano spesso si annoia.

Quando in passato ho comunicato di essere andato da solo ad una mostra, a teatro o anche al cinema, sono stato guardato con un misto di compassione e struggimento; che se solo avessi avuto un cappello per terra avrei potuto raccogliere un bel gruzzolo. Difficilmente l’italiano si muove da solo, di solito tende a farlo in coppia, gruppo o famiglia. La conseguenza? E’ molto alta la percentuale che chi sia realmente interessato a visitare un museo o palazzo storico sia poco più del 25% dell’intero nucleo. Cosa fa, quindi, il restante 75% costretto alla visita?

La trafila, di solito, è la seguente:

  1. Il soggetto disinteressato non fa la fila alle casse, ma attende che qualcuno gli consegni il suo biglietto di ingresso. Lo guarda distrattamente finché non gli balza all’occhio il costo: “15 euro? Vabbè ma potevo aspettare fuori“.
  2. Ormai costretto all’ingresso, si trascina per le prime sale iniziando a sbadigliare e trascinando i piedi. Cerca di puntare i capannelli di gente, pensando che probabilmente le opere più interessanti sono quelle che richiamano maggiori afflussi. Decide, così, di dare una chance al posto e condivide forti cenni di approvazione mentre cerca di intercettare gli sguardi dei vicini. Può farcela.
  3. Spronato da quel briciolo di interazione, inizia a leggere i pannelli informativi, ma alla terza riga si distrae, non riesce a tenere il filo e capisce che deve solo sperare che passi tutto in fretta e che quel luogo non fa per lui.
  4. Prende il cellulare, ma la security gli intima di lasciarlo.
  5. Allora cerca in qualche altra sala i suoi compagni di viaggio per condividere un pensiero geniale su un’opera, come ad esempio “carinissimo quello eh?“. Gli altri tendono ad ignorarlo.
  6. In preda alla noia più totale, inizia a leggere i cartelli e sfidarli. Primo tra tutti il temibile “Non toccare“. Quando un italiano legge che non può toccare qualcosa sente un irrefrenabile impulso che parte dai polpastrelli e lo porta alla necessità di avere un contatto tattile con la statua, il tavolino o l’oggetto in esposizione. In caso di materiali in legno, l’italiano annoiato ama fare “toc toc” per verificare se ne conseguirà un rumore sordo o meno. La security – che già lo punta da quando è entrato – lo ammonisce silente, indicando semplicemente il cartello con disprezzo. Lui si scusa e torna a trascinare i piedi.
  7. Cambia sala e trova una nuova sfida: “No photo“. A quel punto, l’italiano annoiato ha un bisogno irrefrenabile di immortalare il suo soggetto e, nel caso di cartello “No flash“, ha bisogno di illuminarlo a giorno prima di fotografarlo. Inizia, quindi, goffamente ad armeggiare con lo smartphone, piazzandolo ad altezza stomaco e continuando a fare cenni di assenso nei confronti delle opere in mostra per depistare gli astanti. Nel 90% dei casi, il suo smartphone ha l’audio attivato e produce un “click” che sentono anche al di fuori dell’edificio. La security arriva sul posto e – disgustata – gli mostra il cartello. Lui si scusa e cambia sala.
  8. La noia lo attanaglia, sente di impazzire, finché non inizia a giocare con le corde che separano il pubblico dagli ambienti non calpestabili. E’ così che parte un diabolico gioco in cui costeggia con la gamba tutto il tracciato, sfidando la sicurezza che lo osserva ma che non può dire nulla in quanto in realtà non sta violando la zona ma la sta accarezzando.
  9. Poi una luce in fondo al tunnel: i bagni e il bar. Chiede al gruppo se qualcuno ha bisogno di un bagno. Se qualcuno vuole un caffè. Una brioche. Pure un goccio d’acqua. Farebbe di tutto pur di distrarsi un attimo prima di continuare. Nessuno gli dà ascolto e tutti procedono nella seconda parte della visita.
  10. Ma la security è al cambio turno, questo vuol dire nuovo personale, può ricominciare da capo: don’t touch, no photo, no flash, toc toc, la corda, sbadigli, selfie, bagni e così via finché qualcuno del gruppo lo avvicina e gli dice “è l’ultima sala“, per cercare di dargli un sollievo. Lui gioisce dentro, è un eroe, ce l’ha fatta ma non vuole darlo a vedere e se ne esce con un laconico “ah già?“. E’ tutto finito, ora si può andare a mangiare.

6 pensieri su “Un italiano al museo (don’t touch)

  1. Anch’io preferisco andare sola a vedere qualcosa che m’interessa, così mi fermo dove voglio e quanto voglio, gustandomi tutto in santa pace.
    Poi detesto la gente che tocca, la mia migliore amica ha questo vizio. Quando andiamo in giro nei mercatini, lei prende in mano tutto e poi non compra niente. Si comporta come una bambina e quando glielo faccio notare lei si arrabbia.

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  2. Dai, la tua analisi è divertente, ma mi sembra un po’ severa 🙂 Immagino ci siano anche tipi così, per fortuna non tutti. In ogni caso mi annovero tra quelli che scelgono cosa andare a vedere, se trovo adeguata compagnia bene, altrimenti vado sola. Proprio oggi ho fatto una visita virtuale a una mostra (in mancanza di meglio) e non mi è dispiaciuta.

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