Un Italiano a… Istanbul (Don’t Get Up)

Non si può descrivere Istanbul, bisogna andarci, viverla e cercare di capirla, io ne sono rimasto affascinato e spero di tornarci prestissimo. Ma si sa, non sono qui a dare consigli su quale moschea visitare perché questo la Lonely Planet lo fa meglio di me, sono qui per raccontare cosa un Italiano può combinare in una città come Istanbul, in questo caso abbiamo come testimonial un italiano d’eccezione, avvezzo alle figure di merda e abile nell’accumularne… io!

  1. Fast&Furious. Appena arrivato a Istanbul ho prenotato un transfer aeroportuale per paura di perdermi per sempre ed essere venduto ai turchi, mai sarei andato a pensare che molto probabilmente chiamare un autista era ben più pericoloso. Ognuno di noi ha in mente un’immagine se pensa alla parola “traffico”. Io la ricollego alla mole di gente sul lungomare di Napoli, alle processioni tarantine a Pasqua, alla Salerno – Reggio Calabria o al concerto degli U2 a Torino… niente in confronto a ciò che i miei occhi hanno visto sulla tratta dall’aeroporto di Ataturk all’albergo… gente in ogni dove, con ceste sulla testa, per le strade, sui marciapiedi, in ogni varco umanamente riempibile. Ma tutto ciò sembrava solo un miraggio personale, affatto percepito dall’autista. Ho chiuso gli occhi per almeno metà della tratta, penso abbia ucciso almeno 6 o 7 passanti, lui suonava il clacson per informare che stava per passargli sopra e poi la sua coscienza era pulita… sembrava uno di quei videogame che poi tolgono dal commercio perché spinge alla violenza. In auto abbiamo esclamato più volte “oddio”, anche quando siamo finiti su strade che si sviluppavano in verticale e ti sentivi come sul Blue Tornado a Gardaland, solo che durava molto di più e prevedeva il passaggio di fiumi di pedoni che se ne fottevano del fatto che ti trovassi su una pendenza non supportata dalle leggi della fisica. Fiumi di pedoni, fiumi di pedoni tra noi, prima o poi ci portano via.
  1. Riff Raff. Superato il trauma della gente in ogni pertugio arriviamo in albergo, il nostro ingresso ricorda molto l’incipit del Rocky Horror… Non ci chiedono di fare il Time Warp, ma ci invitano ad entrare e da lì parte un incubo senza fine. Rimaniamo almeno mezz’ora alla reception ad ascoltare inermi i mille consigli per visitare la città, cosa bere, cosa mangiare, dove andare, dove non andare, cosa comprare e cosa no. A un certo punto tentiamo di alzarci. Sit please. Ok. Andate al gran bazar ma non comprate, andate al bazar delle spezie ma contrattate, i dervisci sì ma solo in determinati luoghi. Ok grazie mille. Don’t get up. E va bene, assaggiamo i vostri dolcetti, ok proviamo pure il caffè turco, fatelo forte quanto volete, zucchero quanto vi aggrada ma dobbiamo andare. Sit down. D’accordo ma non abbiamo molto tempo, grazie apprezziamo molto che ci offriate la tessera dei mezzi, sei davvero gentilissimo Rif Raff ma noi dobbiamo proprio scappare. Don’t get up. Senti, dobbiamo uscire, ciao, abbiamo soltanto tre giorni cazzo. Da quel momento ogni mattina abbiamo cercato di scappare dalla reception senza farci vedere, quando siamo stati sgamati abbiamo dovuto scontare le volte in cui siamo andati via senza salutare. Non è stato facile. Turchi gente ospitale… pure troppo!
  2. Birra di Solimano. Tipica figura da Italiano all’estero: caldo torrido, bella giornata di sole, devi aspettare le 14 per entrare nella moschea di Solimano perché ai visitatori è concesso l’ingresso solo dopo mezz’ora. Cosa fai? Ti siedi a bere qualcosa. Ora, io davvero non ci ho pensato, so che è superficialità ma avevo proprio voglia di una bella birra ghiacciata. For me one beer please. Dramma. Il cameriere inizia a sgranare gli occhi, sembra abbia un mancamento, guarda me, poi guarda la moschea, poi me, poi la moschea, poi me, poi la moschea… così senza sosta senza riuscire a dire nulla. Mi rendo conto dell’errore “sorry sorry… a coke…”. Lui non riesce a riprendersi e inizia a prendere le distanze “no beer no beer”, guarda me, poi guarda la moschea, poi guarda me, si guarda attorno per verificare se qualcuno ha sentito. Mi scuso, lui torna normale, mi spiega che non posso bere birra in quel luogo, accetto di buon grado e resisto alla tentazione di chiedere un panino con la porchetta.
  3. Muezzin Al Bano. Stai cenando su una splendida terrazza vista mare, tutto è rilassante e magico quando improvvisamente senti partire un acuto che riecheggia per tutta la città. Dai minareti senti che Al Bano sta iniziando ad intonare “e vaaaaa e il mio pensiero se ne vaaaa”, però solo la parte dell’acuto che in loop si ripete nei minuti a venire. All’inizio fa davvero una strana sensazione, poi – come quando senti Al Bano appunto – lo accetti e inizi a rassegnarti alla cosa. E’ la mia vita, che passa e dove andrààààààààààààààààààààà.
  4. Turkish Mastrota. Nel mio ultimo giorno di permanenza in città desidero solo un kebab… classico, tradizionale, una cosa semplice. Ne faccio richiesta allo staff della Ottoman Kitchen che mi comunica che devo andare dentro ad ordinare. Io non so perché ma l’infido ottomano, che in Italia sarebbe diventato il Giorgio Mastrota dei kebabbari, riesce a rifilarmi l’inverosimile: così mi viene dato un piatto di agnello con melanzane, pollo con patata al cartoccio, riso in bianco, kebab di pollo, patate e insalata… un piatto adeguato per una tavolata da 6 persone per dire. Sto ancora rotolando e loro ancora stanno ridendo per tutta la roba che mi hanno fatto ingurgitare. E non ho neanche avuto la mountain bike con cambio shimano.
  5. Le nonne turche. Argomento molto triste quello di queste schiave della pita turca che vengono messe nelle vetrine dei ristoranti per invogliare il turista fessacchiotto ad entrare. Ci sono locali che urlano “trappola del turista”, gli arredi estremamente kitch, la ricostruzione di ambienti artificiali, cascate d’acqua, insegne al neon, foto di ogni singolo piatto, menu tradotto in 42 lingue, sì, sono segni inconfondibili… ma il turco cosa fa? Ti depista… ti mette in vetrina una vecchina che lavora la farina… e tu la vedi lì che stende col suo mattarello la pasta per creare il famosissimo pancake turco e tu per un attimo ci credi e pensi “ma sì diamo una possibilità al locale con l’insegna al neon che recita “the best turkish cuisine”, se la nonna turca presta il suo volto per tale location non potrà essere poi così male. Poi ti siedi al tavolo e, riguardando in direzione della vetrina, vedi la nonna con un ghigno che recita in modo chiaro “ti abbiamo fottuto”, ti guardi intorno e noti che ci sono solo turisti scemi come te nel raggio di un miglio, riguardi fisso negli occhi la nonna che intanto continua a lavorare la stessa pasta da mezz’ora e hai ormai capito che è quasi sicuramente cera pongo. La nonna ti sta facendo il gesto dell’ombrello, sei finito anche tu nella trappola del turista.

Basta cattiverie, Istanbul è una città incredibile, porta tra Orientre e Occidente, tra Riff Raff e le nonne turche, tra autisti assassini e pedoni che se ne fottono, tra Al Bano e i dervisci, tra terrazze e cisterne sotterranee, tra birre e moschee… insomma, un mondo di contraddizioni ed opposti che si attraggono e ti attraggono più di ogni altra cosa, tanto che vorresti tornarci già domani. Don’t get up.

5 pensieri su “Un Italiano a… Istanbul (Don’t Get Up)

  1. La città è molto particolare!!! Ma svendo vissuto anni nei Balcani avevo avuto un accenno degli Ottomani ma in questa città tutto è amplificato… da vivere per una vacanza ma non viverci (non resisterei … ma l’uomo si adegua a tutto anche ai turchi). In generale la Turchia mi sembra un paese adolescente 🙂 paragonato ad un libro Detective selvaggi di Bolano

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